Fra pochi giorni uscirà in libreria il nuovo libro di Gigi Di Fiore “Pandemia 1836″. Narra le vicende legate all’epidemia di colera – cholera morbus – proveniente dall’Asia, che si diffuse in Europa nel 1836 e si propagò anche nell’Alta Italia e successivamente nei territori del Regno delle Due Sicilie. In particolare viene ricostruita la sequenza di eventi che prima preannunciarono e poi scandirono l’arrivo del morbo nello Stato dei Borbone e la successione dei vari provvedimenti adottati dal regno guidato da Ferdinando II per tentare di arginare l’epidemia e ostacolare il suo diffondersi attraverso il racconto dei protagonisti di allora ricavato dalle numerose fonti dell’epoca.
Per conoscere meglio le caratteristiche della pandemia del 1836, le analogie con la grave crisi sanitaria ma anche socio-economica che stiamo vivendo e la natura dei provvedimenti posti in essere dal Regno delle Due Sicilie per tentare di arginarla, abbiamo posto qualche domanda all’Autore.
D.: Dottore Di Fiore, quali sono le analogie più sorprendenti tra l’epidemia di colera del 1836 e e la pandemia dovuta al Covid-19?
R.: Sono davvero numerose. Innanzitutto, anche allora il colera era malattia sconosciuta che appariva per la prima volta in Europa. Non si sapeva come si contagiasse e le cure erano sperimentazioni, proprio come è avvenuto per il coronavirus. Ci furono anche allora medici morti per i contagi dopo aver curato i loro pazienti, ospedali aperti per curare i colerosi, restrizioni sui commerci, cordoni sanitari, provvedimenti di sanificazione. E si videro anche le proteste e i timori per le ripercussioni dell’epidemia sull’economia. Insomma, nulla si è inventato e, scrivendo di storia sulla prima pandemia dell’era contemporanea, quella di colera, mi sembrava di scrivere di attualità sul coronavirus.
D.: L’epidemia del Covid-19 arriva dopo quasi due secoli dalla pandemia del 1836. Abbiamo commesso gli stessi errori?
R.: C’è stata ripetitività nei comportamenti e negli atteggiamenti diffusi. Credo che la costante, allora come oggi, sia stato il terrore per qualcosa di ignoto. Pensi che il bacillo del colera venne isolato solo 50 anni dopo quella prima epidemia. Come è scritto nel risvolto di copertina del libro “nel gioco, spesso fallace, dei corsi e ricorsi storici, scopriamo che, nonostante i secoli trascorsi, nonostante i progressi della medicina, l’ignoto che allora sconvolse il mondo è identico all’ignoto di oggi”.
D.: Nel libro che uscirà fra pochi giorni, si parla dei provvedimenti adottati da Ferdinando II per tentare di arginare il contagio. Avremmo potuto imparare qualcosa dall’esperienza del sovrano delle Due Sicilie?
R.: C’è sempre da imparare dalla storia. Parlo delle decisioni di Ferdinando II, ma accenno anche a quelle prese ad esempio, nei mesi precedenti, a Torino. Anche allora si attuarono cordoni sanitari e blocchi, per impedire i contagi. Si attuarono task force, si aprirono lazzaretti e ospedali con il compito di ospitare solo colerosi come il Santa Maria di Loreto a Napoli. Le notizie sul colera arrivarono nella capitale delle Due Sicilie, molto prima che la malattia si diffondesse nel regno, dall’Europa e poi dal nord Italia. Già quattro anni prima si nominarono medici responsabili della prevenzione e degli interventi attraverso decine di decreti che fissavano anche indicazioni e comportamenti da seguire. Se guardiamo i numeri dei morti e contagiati di allora, fatte le dovute proporzioni, si avvicinano molto a quelli del coronavirus di oggi. E sono passati due secoli di progressi scientifici.
Gaetano Ferrara
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