Zia Pina era una persona buona, di un’affabilità materna senza tempo. Era premurosa, preoccupata per la sorte degli altri, animata da una inquietudine che traspariva dal tono della voce, dalla sua irrequietezza, dal suo sguardo vivace ma che assumeva, a tratti, un’espressione di smarrimento. Abituata in gioventù a lavorare sodo, senza conoscere un attimo di riposo, dava l’impressione di stare in ogni momento sul punto di fare qualcosa.
Quando veniva a trovarci, portava sempre un piccolo regalo. Erano oggetti, calze, maglie, cose semplici che esprimevano la genuinità dei suoi sentimenti. Le metteva da parte e le conservava per portarle a noi, al paese.
Lei viveva in provincia di Napoli. Parlavamo a telefono e ogni volta mi manifestava il suo sconcerto per come andavano le cose. Mi ripeteva «La gente è asciùte pàzza!» e si lamentava del fatto che i giovani non volevano più lavorare, che c’era troppo consumismo e poco senso del sacrificio. Per lei che era vissuta di stenti ed aveva dovuto fare grandi sacrifici per portare avanti la sua numerosa famiglia, l’edonismo era qualcosa non solo di estraneo alla sua visione della vita, ma addirittura di incomprensibile.
Commentava poi i fatti di cronaca con una frase – sempre la stessa – che esprimeva tutto il suo disappunto: «Gesù, Gesù! A che mùnne sémme arrevàte!» conservando, nella sua cadenza partenopea, influenze del dialetto della propria terra d’origine.
Zia Pina veniva da lontano. Quando io sono nato, lei aveva già vissuto metà della sua vita. Aveva visto cose che io potevo solo immaginare. In quel tempo profondo, per me inaccessibile, si erano consolidati i rapporti con i miei cugini “di Bologna”, con mio padre, con gli altri miei zii. Io capivo che c’era un’intesa forte, una complicità impenetrabile tra loro che avevano vissuto in un’epoca mitica, antecedente alla mia nascita. Un po’ invidiavo quella relazione speciale tra Arturo, Enzino, Eduardo, mio padre, zio Lorenzo, zia Pina. Essa si era cementata proprio a San Lorenzo Maggiore, dove io poi ho avuto la fortuna di continuare a vivere.
Zia Pina mi riporta alla memoria le giornate calde d’estate, l’attesa del suo arrivo da Napoli, i pranzi a casa di nonna Mariuccia al centro del paese, zio Giovanni, zio Enzo e la sua Fiat 600, le penne (che chiamavamo “maltagliati”) col ragù di carne, la felicità per l’arrivo di mio cugino Pasquale, le novità tecnologiche che Giulia portava da Napoli (registratore mangianastri, tubetto con pasta di gomma per bolle d’aria, macchina da scrivere portatile).
Zia Pina era al centro di questo universo, sempre indaffarata, sempre pronta a prestare attenzione a chi avesse avuto bisogno del suo aiuto. Era una presenza silenziosa, eppure era il fulcro del meccanismo.
Portava con sé un intero mondo, troppo vasto e nobile per essere raccontato. Era costituito da sprazzi della vita che aveva vissuto, dalla sua naturale propensione a prendersi cura degli altri, dalla sua capacità di esserci eppure di non apparire, di stare dietro le quinte ma sempre pronta ad intervenire, sollecita ed affettuosa. Era il punto di riferimento irrinunciabile intorno al quale tutto il resto ruotava. Ha sempre lavorato, si è prodigata per la sua famiglia, è stata una moglie ed una mamma esemplare ed è andata avanti con molta umiltà, dando tutta se stessa per i propri figli, per il proprio marito, per i propri nipoti.
Ora si è ricongiunta col Signore. Si è ricongiunta col marito zio Giovanni, con i suoi amati fratelli, con zia Meluccia, con mio padre, con zio Antonio, con zio Lorenzo, con nonna Mariuccia, con il fratello Antimo morto giovane e con nonno Pasquale, che noi nipoti non abbiamo mai conosciuto.
Cara zia Pina, ci hai voluto tanto bene nella tua vita. Te ne abbiamo voluto e te ne vogliamo anche noi. Resti presente nella parte più profonda del nostro cuore, con la tua dolcezza, la tua fragilità, la tua splendida risata.
Gaetano Ferrara